Il Beato Domenico Spadafora
Domenicano, randazzese, docente di Sacra Teologia del
XVsecolo
Domenico Spadafora
discendeva da una nobile, antica famiglia, giunta in Sicilia da Costantinopoli
probabilmente nell’XI secolo: capostipite fu un Basilio Spadafora, capitano
della guardia dell’imperatore bizantino Isauro Comneno (1058), che ebbe la
carica di esarca. I discendenti ricoprirono alte cariche sotto i principi
normanni, e poi sotto gli Aragonesi. Sembra che il nome “Spadafora” derivasse
dal privilegio di potere portare, in pubblico, la spada sguainata davanti a
sovrani e imperatori. La famiglia Spadafora diede al regno di Sicilia
letterati, senatori, pretori, vescovi, giureconsulti, ebbe molti titoli e
feudi: principi di Maletto, Mazzarà, Venetico, Spadafora, Carcaci, Cerami,
Cutò, baroni di Roccella… Ma ebbe anche stretti legami con la città di
Randazzo: qui aveva una cappella nella chiesa di S. Francesco, e due case, il
Palazzo del Duca, presso S. Nicola, e un’altra dove oggi è la Piazza del
Municipio; nel 1282, nell’interregno dopo il Vespro, due membri della famiglia,
Pietro e Damiano, furono tra i 5 senatori che governarono Randazzo in nome di
Pietro I d’Aragona,; a Ruggero Spadafora si deve la fondazione dell’ospedale
dei Poveri nel 1470, e fu il barone Gian Michele il committente della stupenda
statua marmorea di S. Nicola, eseguita nel 1523 da Antonello Gagini, per
l'omonima chiesa.
Da
Giovanni Spadafora (o Spatafora), barone di Maletto e signore di Casale,
Castello e Tonnara, nacque a Randazzo, intorno al 1450, Domenico, e fu
battezzato in S. Nicola. La sua condizione di secondogenito non gli assegnava
alcuno dei feudi paterni, appannaggio esclusivo del primogenito Giovannello.
Nulla sappiamo della sua prima infanzia, ma dovette frequentare i Frati Predicatori, se in seguito volle
completare presso di loro i suoi studi. Nella città natale esisteva allora,
prospiciente le balze del fiume Alcantara, l’antico convento di S. Domenico.
Quando i genitori, constatata la serietà ed austerità di carattere del giovane,
lo inviarono a Palermo, la città, sotto il prefetto Pietro Speciale, durante il
regno di Alfonso d’Aragona, attraversava un momento di grande ripresa e
fermento intellettuale: si erigevano palazzi, prosperavano gli studi, era un
fiorire di architetti, pittori, scultori, l’introduzione della stampa agevolava
la diffusione della cultura. Questo l’ambiente che trovò nella capitale il
giovane Domenico, proveniente da una tranquilla cittadina del Val Demone.
Ospitato da parenti, frequentò le scuole dei Frati Predicatori di S. Domenico,
avvicinandosi sempre più spesso al nuovo convento domenicano di S. Zita, finché
non vi indossò le vesti di novizio. Il
convento era stato fondato dal beato Pietro Geremia, che in Sicilia si era
impegnato attivamente per ricondurre i conventi domenicani all’osservanza delle
regole. Domenico svolse il suo noviziato, dunque, in questo clima di rinnovato
fervore, desideroso com’era di raggiungere attraverso la preghiera,
l’osservanza delle regole ed i sacrifici da esse imposti, l’ideale del
domenicano. Praticava assiduamente il digiuno, prolungandolo di propria
iniziativa oltre il tempo previsto, cominciò a portare cilici sotto le vesti,
ma volle anche dedicarsi allo studio e all’acquisizione della scienza.
Dopo
il noviziato, frequentò con profitto le scuole del convento, riuscendo a
contemperare le doti dello spirito con quelle dell’intelletto. Quindi i suoi
superiori, nel 1477, lo mandarono a compiere gli studi a Perugia, e da lì a
Padova, sede di una delle Università più prestigiose e antiche del mondo, per
frequentarvi le cattedre di teologia.
A
Padova, dove ebbe modo di seguire ottimi maestri, Domenico conseguì nel 1479, a
29 anni, il grado di Baccelliere in Sacra
Teologia, con aggregazione a quella Università ed ampia licenza di
esercitare il suo ministero con l’insegnamento pubblico della Teologia.
Arricchito da tali esperienze, e dalla frequentazione con molti frati
osservanti, ansioso di riportare la comunità al primitivo fervore, fu
richiamato dai superiori a Palermo, sempre nel convento di S. Zita. Qui
proseguì nella sua vita austera, corroborata però da un’intensa attività
apostolica e dal sapere acquisito nel corso degli anni di studio.
Mentre
cresceva il numero di quanti si accostavano a lui per riceverne consiglio,
sostegno e conforto, Domenico si dedicava sempre di più alla carità,
all’insegnamento del bene, mostrando un atteggiamento umile che lo faceva
rifuggire da qualsiasi onore.
Nel
1487 fu indetto il Capitolo generale dei Domenicani, per eleggere il nuovo Maestro
Generale dell’Ordine: il Vicario generale, fra Giovacchino Torriani, si era
adoperato presso il Pontefice Innocenzo VIII affinché si celebrasse
nella sua città natale, Venezia, e la città lagunare si apprestava a
vivere l’evento con grande pompa e solennità. Per l’occasione il Torriani aveva
ricevuto dal papa la facoltà di nominare 12 Maestri in Sacra Teologia, dopo
avere ascoltato le dispute. Fra Domenico prese parte al Capitolo, e il 7 giugno
tenne una disputa che riscosse grandi e unanimi consensi, al punto da farlo
eleggere – non aveva ancora 40 anni! - tra i 12 nuovi Maestri.
Il nuovo grado ottenuto non l’insuperbì
minimamente, eppure il Vicario Torriani lo trattenne presso di sé, in qualità
di socio del generale, nell’intendimento di circondarsi di uomini
religiosamente irreprensibili, ma anche “saggi e prudenti”, che potessero dare
il loro fattivo contributo in quella tanto auspicata restaurazione dell’Ordine,
“senza provocare scissioni, senza far sorgere troppo profonde inimicizie tra
osservanti e conventuali”, in modo efficace ma praticamente indolore, in attesa
di un prossimo Capitolo da tenersi a Mans.
Frattanto
Domenico veniva inviato a Monte Cerignone, nel Montefeltro, con l’incarico di
fondarvi una comunità riformata, direttamente soggetta al Generale, comunità
che egli riuscì a gestire con accortezza, evitando ogni conflitto tra il
convento e la Provincia.
Completata
la chiesa, dal 1491 al 1498, con un solo compagno, si occupò della costruzione
del convento e di richiamare i frati necessari al culto e alla predicazione.
Instancabile, teneva sermoni, insegnava ai giovani di Cerignone, facendo
affidamento quasi esclusivamente sui legati e le elemosine, che arrivavano
peraltro numerosi. Ultimato il convento, fu creata la comunità dei frati: S.
Maria delle Grazie era un’oasi nel verde della campagna, un luogo che invitava
al raccoglimento e alla pace. Qui Domenico trascorse circa 30 anni, dedicandosi
alla carità e alla direzione spirituale delle anime, amato e riverito da tutti,
tenuto già in considerazione di Santo.
Un suo biografo, il P. Raimondo Biaccini O.P, lamenta la scomparsa di carte e
memorie nel convento di Monte Cerignone, utili a ricostruire tanti momenti ed
aspetti della sua intensa vita terrena.
Nella
primavera del 1521, sentendosi venire meno le forze, Domenico scriveva al
maestro Generale fra Garzia di Loagra, presentando istanza per rimettere la
carica di Vicario, in favore del padre Tommaso di S. Marino, istanza che veniva
rifiutata. Dopo avere obbedito, in un secondo tempo ottenne di associare P.
Tommaso in qualità di Pro-Vicario. Così fino al 21 dicembre di quell’anno: quel
giorno Domenico celebrò la Messa come di consueto, riunì i frati nel capitolo,
e dopo avere loro raccomandato l’osservanza delle regole, la bontà e lo zelo,
ed essersi scusato per i suoi difetti e per eventuali torti o dispiaceri
arrecati loro, annunciò che sarebbe morto prima del tramonto. Indi, recatosi
nella sua cella e ricevuti i sacramenti, rendeva l’anima a Dio. Grande fu il
compianto dei confratelli e degli abitanti del posto, che continuarono per anni
a rendere omaggio alla sua tomba, situata nel presbiterio della chiesa. Nel
1545, quando i suoi resti furono traslati, durante certi lavori di ampliamento,
furono trovati intatti. Aumentarono i prodigi e le guarigioni a lui attribuiti,
e il culto attorno alla sua tomba.
Nel
1652 il convento di S. Maria delle Grazie venne chiuso per ordine di Innocenzo
X, e la chiesa passò sotto la giurisdizione della Parrocchia di S. Maria in
Reclauso, dove l’urna con il corpo del beato Spadafora fu traslata nell’anno
1677, trovando così di nuovo la devozione dei fedeli. Nel 1693 don Belfortini,
parroco di S. Maria in Reclauso, ordinò una nuova urna, che venne subito
venerata e ricoperta di ex-voto. Tale
venerazione si è tramandata inalterata attorno a Monte Cerignone ed alla
cappella del beato Domenico, raccogliendo tutti gli abitanti del circondario,
ma la sanzione ufficiale della Chiesa, col riconoscimento di Beato al Servo di
Dio, con l’approvazione del S. Pontefice Benedetto XV, avveniva il 14 gennaio
1921, proprio nel 4° centenario dalla sua morte, 7° da quella del fondatore,
Domenico di Guzmàn.
A
quando la santificazione? Speriamo che non passino altrettanti secoli.
Una preghiera ininterrotta
La
vita terrena del Beato Domenico Spadafora si potrebbe compendiare nella
mortificazione della volontà ed osservanza delle regole, che si adoperò
incessantemente per ripristinare e riportare alla disciplina originaria.
Nato
da nobile schiatta, avrebbe potuto far leva sulla sua posizione sociale per
ottenere alte cariche e privilegi, in un tempo in cui il censo era elemento di
forza. Aveva parenti nelle più alte cariche dell’isola, influenti presso la
casa d’Aragona, non potevano mancargli gloria, agi e vita facile, invece “si rinchiuse in un chiostro e si cinse di
silenzio”.
La
gente lo amava, i confratelli riconoscevano le sue eccezionali qualità, di
cuore, di spirito e d’intelletto, i superiori gli conferivano titoli accademici
e teologici, lo incitavano, gli davano stima e fiducia, eppure, lungi
dall’aspirare a cariche ed onorificenze, si ritirò in un convento di montagna “piccolo coi piccoli”, accontentandosi di
indicare la via del bene ai contadini e agli umili. “E sembra quasi che questa umiltà sia stata rispettata dalla storia-
dice il suo biografo – Quasi tutto
infatti che si riferisce alla sua azione è scomparso e il silenzio circonda la
sua figura”.
Smorzò
con i digiuni, le veglie e le mortificazioni la sua indole ardente ed
esuberante di siciliano, per trasformare la sua vita in una preghiera ininterrotta. Un continuo anelare alla perfezione e
al bene. La città di Randazzo, che gli diede i natali può andare fiera di
annoverare, tra i suoi figli più illustri, il nome del Beato Domenico
Spadafora.
(Il
Gazzettino di Giarre, n.38 / 2002)
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